Pare completamente risolta la polemica-scandalo che ha infiammato l’opinione pubblica negli ultimi giorni che ha interessato Più Libri Più Liberi. Non ci interessa più di tanto riaprire l’argomento in sé, anche perché della fiera nazionale della piccola e media borghesia ci importa veramente poco. Ma ci pare rilevante aggiungere un tassello che a nostro parere è risultato mancante nella discussione e nelle voci ospiti a cui è stato chiesto di prendere delle posizioni sulla propria partecipazione e che può aiutarci a comprendere meglio anche la vicenda in sé, ma forse pure qualcos’altro.
Non siamo qui per dire chi ha fatto bene, chi ha fatto male, cosa si poteva o meno fare meglio, ma semplicemente approfittare del clamore mediatico per sottolineare una questione che ogni qual volta che “la politica” si mescola con “la cultura” o meglio, l’industria culturale, viene raramente presa in considerazione.
Che sia il Salone del Libro, il Lucca Comics o Più Libri Più Liberi, che sia per il patrocino di/la presenza di e via dicendo tendiamo sempre a dimenticare che questo tipo di eventi rientrano perfettamente negli schemi e nelle logiche dei grandi eventi/grandi opere: l’unica posizione che interessa a chi organizza è il profitto, non di certo la cultura e ancor meno quella “radicale” (non che sia una cosa particolarmente radicale non volere un uomo violento come ospite) – per lo meno se intendiamo “la cultura” come un qualcosa che ha profondamente a che fare con la trasformazione della società a livello tanto individuale quanto collettivo.
A differenza di altri eventi, Più Libri Più Liberi è specificatamente dedicato alla piccola e media editoria, spazio-tempo che per sua definizione dovrebbe offrire una maggiore circolazione/esposizione del pensiero minoritario e indipendente. In teoria.
Ci sono tante prospettive che andrebbero prese in considerazione per fare un ragionamento esaustivo sul tema editoria prima di arrivare a quello più specificatamente “politico” che vogliamo sollevare. Ma fare politica vuol dire scegliere, giusto? Quindi ci pare significativo riportare le parole di chi, ben prima del caso Caffo-Valerio, aveva già scelto di non parteciparvi:
“C'è chi lo sa già, chi dà per scontato di trovarci lì e chi ci chiede se saremo presenti o no. La risposta è la stessa, per il terzo anno consecutivo: NO, non parteciperemo a Più Libri Più Liberi, la fiera ‘della piccola e media editoria’.
Cosa significa ‘piccola e media editoria’? Per PLPL è il fatturato, che per permettere la partecipazione alla fiera non deve superare i dieci milioni di euro annui (avete letto bene: dieci milioni). Per noi invece non si tratta di fatturato, di ‘progetto’ o ancora peggio di ‘qualità’, una parola che nel nostro settore si è svuotata di significato per l’abuso che se ne è fatto, ma di scelta.
Perché è questo che fa l’editoria: sceglie. Cosa pubblicare e, soprattutto, quanto pubblicare. Il complesso percorso della filiera del libro, invece, in Italia si basa su un meccanismo che attualmente ha il solo obbiettivo di produrre incessantemente; e il problema principale di questo nostro ormai elitario universo è sempre il solito: ci sono troppi libri. A una rapida stima ne escono circa dieci all’ora; inutile dire che ne vanno al macero a tonnellate. Si verifica così un paradosso degno del miglior busenga*: in Italia si legge di meno perché si produce troppo. E allora qual è l'opportunità di partecipare a una fiera che già solo a partire dal nome, Più libri, fa del principio tossico della filiera editoriale il suo stemma?
Non neghiamo anche che troviamo spropositato lo squilibrio tra costi e concessioni – PLPL è una delle fiere più costose di tutta la filiera – e troviamo diverse contraddizioni in un programma in cui il punto di forza anche in questo caso è il numero: 670 eventi!, urla il comunicato. Seicentosettanta eventi in cinque giorni, e andando a leggere il comunicato stampa uscito, non troviamo citato nemmeno uno di quelli degli editori 'piccoli e 'medi' – quelli che non fatturano dieci milioni all'anno.
Capite bene che tutto questo non ci rappresenta. Vorremo praticare un'editoria che produca con i propri ritmi e i propri criteri e in maniera, ci auguriamo, più sostenibile.
Non saremo a PLPL, insomma, ma ci trovate in libreria e in un sacco di altri luoghi, forse davvero più liberi.”
- effequ “casa editrice storta e indipendente”, 18 novembre 2024 via instagram e poi ulteriormente approfondito il 28 novembre alla luce degli eventi recenti.
Già nel 2022 effequ ed altre case 7 editrici indipendenti avevano scelto di boicottare PLPL e dare vita ad una Controfiera (tenuta negli stessi giorni all’Atelier Autogestito ESC nel quartiere romano di San Lorenzo) spiegando in una inequivocabile intervista le proprie motivazioni (raccontando un po’ del marciume della fiera e più in generale dei ricatti dell’industria editoriale e della Grande Distribuzione Organizzata).
Questo non è per dire che chi partecipa alle grandi fiere con il proprio stand è automaticamente dalla parte del torto, che il caso Caffo-Valerio non è importante, o tanto meno che non dovete andarci, ma che ci sono delle alternative in cui politica e cultura non sono due concetti che si trovano ad inciampare uno dentro l’altro quasi per sbaglio.
Partecipare, creare e moltiplicare queste iniziative non solo permette VERAMENTE di dare spazio alla Cultura indipendente, marginale o radicale (che è minoritaria quasi per definizione), ma contribuisce a sviluppare un tessuto sociale in cui al centro ci sono le relazioni che intessiamo tra noi, un noi che non sia fatto di numeri, di biglietti venduti, di faticosi conti da far quadrare alla fine del mese.
E parliamoci chiaro, le capriole della Valerio, parte di una certa intellighenzia radical chic, hanno a che fare solo con la reputazione della fiera e delle sue ricadute economiche, mica col femminismo.
Di fronte alla quotidianità delle violenze, dei genocidi, dello sfruttamento e delle assurdità (!) a cui assistiamo ogni maledetto giorno, i legami solidali e complici diventano la nostra migliore possibilità di venirne fuori assieme e ostacolarne la prosecuzione. Ma dobbiamo ancora imparare tanto sulle relazioni sane.
“Cultura, non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri.”
Antonio Gramsci, Quaderni dal Carcere, 1929-1935.
Le parole di Gramsci sono sufficientemente esplicative nel farci capire che la cultura non è fatta solo da ciò che leggiamo, tuttavia sarebbe scorretto concludere questa riflessione senza tirare in ballo una questione centralissima nel discorso cultura-libri: COSTANO TROPPO.
Innanzitutto è bene ricordare che Robin Book non è una casa editrice e nemmeno un collettivo, ma un metodo della conflittualità. Certo, ci occupiamo di editoria e in una qualche misura è facile scambiare le nostre attività come parte di quel mondo, ma è importante tenere a mente che prima di ogni altra cosa la nostra mano è mossa dalla necessità di espropriare la cultura ribelle e renderla il più accessibile possibile. Scriviamo da e con una prospettiva militante.
Sappiamo bene quanto sia veritiera l’infelice uscita di Giulio Tremonti, diventata proverbiale, secondo la quale “con la cultura non si mangia”. La tossicità del complesso cultural-industriale pesa veramente tanto sulle spalle di chi la cultura “la produce” dal basso (chi scrive, edita, distribuisce…), è inevitabile che poi questo peso venga scaricato su chi “la consuma”. Tuttavia non possiamo sottrarci dal constatare che questo meccanismo tossico abbia delle ricadute concrete nello sviluppo della coscienza politica collettiva, che tra le varie cose si sviluppa anche con lo studio e la lettura ed è centrale nella trasformazione della realtà.
Se da una parte comprendiamo le fatiche e le difficoltà di “riuscire a mangiare” di chi, in un modo o nell’altro, fa parte della galassia editoriale, quando parliamo di politica (nel senso di tematiche affrontate) radicale o movimentista ci saltano veramente i nervi quando ci rendiamo conto che la malattia della proprietà privata è penetrata così profondamente anche tra di noi militanti.
La proprietà è un furto. Sempre. (e in ambito relazionale è prepotentemente legata al sessismo e alla violenza di genere)
Non solo limita notevolmente la libera circolazione delle idee (subordinandole alla capacità materiali delle singole persone e della loro appartenenza più o meno ), ma le vincola a chi le propone, alimentando così un meccanismo in cui autorialità, distribuzione e privilegio diventano le barriere architettoniche dello sviluppo dell’autonomia individuale e collettiva e la centralizzano attorno a specialisti, autori, accademici e alle loro cattedrali.
Non vogliamo puntare i diti contro nessuna casa editrice o soggettività che si dedica a questo tipo di attività, perché non siamo nemiche e conosciamo molto bene “i costi” della militanza, ma non possiamo accettare che la circolazione della conoscenza sovversiva e ribelle risponda agli stessi meccanismi che vuole mettere in discussione o addirittura abolire.
Abbiamo bisogno di incendiare le nostra immaginazione, di farla viaggiare e di contaminarla in continuazione se davvero vogliamo rompere il soffitto di cristallo per cui “non ci sono alternative”, perché le alternative ci sono eccome, sono già tra noi, ma non è giusto – ed è strategicamente controproducente - farle conoscere solo a chi paga. Specialmente perché di solito chi se la può permettere in abbondanza è chi è meno interessat dalla marginalizzazione.
Nulla è mai veramente gratuito, specialmente lottare, ma questo non significa che allora ci si debba per forza guadagnare sopra.
"L'istruzione o funziona come uno strumento che viene utilizzato per facilitare l'integrazione delle giovani generazioni nella logica del sistema attuale e portare a conformità o diventa la pratica della libertà, il mezzo con cui gli uomini e le donne si occupano in modo critico della realtà e scoprire come partecipare alla trasformazione del loro mondo. "
Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi, 1967
Abbiamo intitolato questa nostra riflessione – PLPL +PFLP, un po’ perché le assonanze ci fanno sempre sorridere, un po’ come provocazione militante, perché all’interno del libro RENDITI LIBERA contenente i primi scritti del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) una grossa fetta delle riflessioni proposte nella “Strategia” (primavera 1969) ragiona del ruolo cruciale della cultura e dell’educazione nell’organizzazione della resistenza, quindi il rapporto difficile tra masse, militanti e intellettuali. A prescindere da quanto possiamo condividere di quelle riflessioni, e di quale argomento nello specifico stiamo trattando, se da militanti non ci preoccupiamo seriamente di come espandere e rafforzare le fratture che diciamo tanto di (voler) abitare hai voglia a continuare a protestare contro questo o quello.
Per noi, la proprietà della cultura, quindi la possibilità ad accedervi, svolge un ruolo importantissimo. Per questo continueremo a rubare, piratare, tradurre, scannerizzare e distribuire gratuitamente tutto ciò che ci può sembrare rilevante per le nostre lotte. E puoi farlo anche tu, in completa autonomia.
È un’attività che richiede un certo sforzo, ma che vale la pena fare se anche solo una lettura rubata innesca una scintilla nuova nella mente di chi la legge. Sappiamo che lo fa davvero e che quelle scintille possono davvero cambiare il mondo.
E il mondo deve cambiare.